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Casa della Pace: Euromediterraneo, se la risposta fosse fuori dall'Ue?

Casa della Pace: Euromediterraneo, se la risposta fosse fuori dall'Ue?
Autore: Nostro inviato Gabriele Santoro
Data: 01/12/2013

 Nel processo di costruzione dell’Unione Europea un peso determinante è stato assunto dalla sfera puramente economica, mentre “è insita una debolezza politico-culturale”, Mauro Casadio introduce il dibattito promosso dalla Rete dei Comunisti sulla proposta di uscita dall’organizzazione continentale per dare vita ad una serie di rapporti di cooperazione fra i paesi delle due sponde del Mediterraneo. I lavori si sono tenuti sabato 30 novembre e domenica 1 dicembre presso la Casa della Pace, all’ex Mattatoio di via di Monte Testaccio.

“Nella dialettica ci sono l’affermazione e la negazione e l’Ue va negata”, continua Casadio, “perché ha avviato una serie di disuguaglianze e impoverito la gran parte di noi usando il debito pubblico come una clava per mantenere le gerarchie interne”. Che l’area Mediterranea – più l’Irlanda – sia l’anello debole non è propriamente un segreto, un nuovo rapporto di forze darebbe delle “prospettive a paesi che non possono guardare al cuore dell’Europa perché per loro non c’è spazio”. Lo sviluppo potrebbe arrivare allora dalle periferie, anche se nel momento contingente riferirsi ai paesi del Nord Africa è particolarmente difficile, vista la delicata fase di ricostruzione intrapresa dopo la caduta dei vari regimi. Ma dove ingenti investimenti sono già arrivati.

“La proposta di rottura parte dalla crisi sistemica”, aggiunge Luciano Vasapollo, “che non è una crisi della domanda come viene fatto credere, ma dovuta alla sovrapproduzione. E per cui non c’è un modello come nel ’29 che possa dare una soluzione”. Ad imporsi come paese esportatore è stata ora la Germania, nel pareggio di bilancio che ogni Stato è intenzionato a raggiungere, se considerassimo l’Ue come entità unitaria, “il surplus finanziario tedesco è equilibrato dal nostro deficit”. E l’euro, quasi un “super marco”, punta deciso alla sostituzione del dollaro come valuta di scambio”, ma questo tipo di politica  monetaria “non sta portando come in passato ad un’espansione occupazionale”.

Progetto utopistico? “La principale accusa che ci viene mossa è che sia un progetto utopistico”, prosegue Vasapollo, “in realtà lo era di più la concezione di base dell’Unione Europea come comunità di popoli”. Sicuramente non va visto in un’ottica di breve termine, “il cambiamento va fatto non perché praticabile nell’immediato, ma perché giusto”. La nuova concezione parte da un sistema “non più gerarchico ma fondato sulla solidarietà, reciprocità e complementarietà economica”, disciplina cui deve essere anteposto il primato della politica,  “senza spazio per i singoli sentimenti nazionalisti. L’economia mista con la partecipazione statale era attuata anche dai governi Craxi ed Andreotti”, come dire che ogni possibile minaccia di ingerenza del pubblico stile sovietico non va neppure considerata.

Il caso spagnolo “L’euro è stato un cattivo affare per la Spagna”, interviene Joaquin Arriola, economista. Con la moneta unica il tasso di interesse è calato dal 12 al 4%, con un conseguente “crollo del costo capitale usato per dare una spinta all’accumulazione. I governi poi hanno sviluppato un quadro per agevolare un effetto ricchezza apparente mentre il debito estero andava triplicando verso Paesi che negli anni ’80 e ’90 erano a loro volta debitori” degli iberici. Il deficit commerciale è il più alto fra i paesi sviluppati, “al 7% del Pil”. La Banca Centrale Europea “contiene gli adeguamenti dell’inflazione ma con un cambio troppo alto per chi ha degli squilibri e troppo basso per chi è in surplus”. Gli esecutivi non possono agire in autonomia e le misure di salvataggio non sono indirizzate alla redistribuzione “ma per pagare il debito privato”. Il risultato sono 3,5 milioni di posti di lavoro in meno ed un tasso di disoccupazione intorno al 30%.

Un parallelo con il Sudamerica Tra gli anni ’70 e i ’90 “in America Latina abbiamo avuto un trattamento simile ma di intensità peggiore”, spiega Francisco Dominguez, cileno, docente alla Middlesex University in Inghilterra, “con una riduzione della sfera sociale, l’abbattimento del welfare state ed un indebitamento pubblico irresponsabile”. Ma più contenuto rispetto al “140-180% del Pil” segnato attualmente da alcuni Paesi. “Chi ha creato la crisi non sa come controllare il fenomeno e la troika garantisce profitti al capitale finanziario a spese della società, con una tendenza ad erodere i diritti democratici dei popoli”.

Le previsioni parlano di rischi di austerità per i prossimi 20 anni, ma l’esempio sudamericano può far guardare al futuro con più ottimismo, “si vive una realtà migliore”. Per fare un esempio nel 2008 il presidente boliviano Morales decise di alzare dall’1 all’85% la tassazione per le imprese multinazionali attive nell’estrazione del gas: un azzardo che rischiava di allontanare gli investitori stranieri di cui il paese andino ha bisogno. Ma questo scenario non si è verificato “ed ora si discute di arrivare addirittura al 95%. Il mito neoliberista della totale deregolamentazione è falso, in Sudamerica si è passati dal 48% della popolazione sotto la soglia della povertà nel 2004 al 28%, in termini assoluti si parla di 220 milioni di persone. Nella maggior parte dei paesi il Fmi non ha influenza, la Banca del Sur ha autonomia finanziaria quasi totale.  È quindi possibile partire da basi etiche”.




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Data:10/08/2013
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